Credo che la differenza tra di noi sia che tu sei costretto a voler comprendere le cose e io sono costretto a non voler comprendere. In altre parole, tratte dal linguaggio psicoanalitico in voga, io mi sento a mio agio nell’imago del corpo materno, con la sua oscurità e tu vuoi allontanartene.
(…)Noi avremo sempre qualcosa su cui discutere. Così, per esempio, tu ammetti che il transfert paterno sia necessario per la riuscita dell’analisi. Ma perché dovrebbe essere meno utile il transfert materno, o quello sui compagni, o sul biberon, o sul ritmo, o sulla bambola di gomma o sul giocattolo? Da parte mia amo l’indeterminato, preferisco dubitare, e prima di tutto, lascio volentieri che gli altri si prendano cura di me. È perciò che la scoperta dell’Es è così di conforto per me. Io ho l’impressione che tu ami ridere, come me. E allora perché dobbiamo prendere tanto sul serio ciò che si definisce scientifico? Per me è come se la scienza si fermasse nel momento in cui si trasforma in regola, diventa una legge.
(lettera di Groddeck a Ferenczi, 12-11-22)
Dal mio punto di vista di medico, sottolineo che questa formazione di un nuovo individuo, medico-malato, è l’asse attorno al quale ruota il trattamento.
(G. Groddeck, Der Mensch als Symbol)
Ho bisogno di teorie che muovono la mente come può fare l’arte, non di teorie che sistemino le nostre menti.
(J. Hillman, Il linguaggio della vita)
Il nome autorizza l’’’Io’’ ma non lo giustifica. Io penso. Il pensiero mi crea. Esso però è mia creazione così come io sono la sua destinazione.
(E. Jabés, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato)
Vorrei innanzitutto ringraziare la Groddeck Gesellschaft per l’invito e in particolare la signora Beate Schuh di cui mia moglie ed io abbiamo avuto modo di apprezzare negli anni scorsi la disponibilità e la gentilezza nel prezioso scambio di mail durante la traduzione della biografia di Martynkewicz.
La prima volta che venni a Baden Baden, agli inizi degli anni novanta fu proprio sulla scia della lettura del Libro dell’ES da noi in Italia tuttora molto noto. Rimasi un po’sconcertato quando mi accorsi che qui nessuno lo conosceva, neppure i librai, finché non entrai nella libreria Möller (lo stesso cognome di mia madre!) e il titolare mi indicò la biblioteca comunale e l’Hotel Tanneck.
Conobbi Groddeck piuttosto tardi, alla fine degli studi di medicina, quando mi stavo orientando senza troppa convinzione verso una specializzazione chirurgica. Il professore del corso complementare di medicina psicosomatica mi colpì molto e accennò al Nostro come a uno dei pionieri di un approccio al malato fino a quel momento a me completamente sconosciuto.
Successivamente, già specializzando in psichiatria, la partecipazione a un gruppo Balint con altri giovani medici mi portò ad approfondire la relazione medico-paziente e a riscoprire il legame con Groddeck.
Il suo lavoro di medico outsider e sperimentatore di frontiera della medicina classica e della psicoanalisi sembra relegato a un periodo storico ben preciso, i primi trent’anni del secolo scorso, e aver lasciato, a prima vista, poche tracce nell’attualità.
Conosciuto ai non addetti ai lavori, più che in ambito scientifico e specialistico dove solo raramente viene citato in bibliografia, il “Kaiser Groddeck” (Ingeborg Bachman[1]) “fanatico della medicina” (Ernst Simmel[2]) sembra essere piuttosto un medico prestato alla letteratura. Il suo linguaggio insaturo, paradossale, non definitorio, le sue idee ricche di illuminazioni folgoranti ma anche di suggestive contraddizioni, di “stupidaggini esatte” (J.B. Pontalis[3]) hanno consentito di farci ammaliare dalla sua figura e di riconoscerci come “Groddeckiani selvaggi” (Edoardo Sanguineti) ma nel contempo hanno forse lasciato in secondo piano aspetti fondamentali del suo percorso.
A fronte della recente riscoperta dell’opera dell’altro “poppante saggio”, l’enfant terrible Sandor Ferenczi, di cui fu amico e medico e col quale sperimentò un’analisi mutua, anche l’eredità di Groddeck e la sua influenza, pur con le dovute differenze e proporzioni, meritano di essere ridiscusse.
Molte questioni oggetto di dibattito nell’attualità, quali l’evoluzione verso una partnership del rapporto medico-paziente, la mutualità, la soggettività e la self-disclosure dell’analista, la formazione in medicina e il potere del terapeuta “esperto delle paure altrui”[4] sono ben rintracciabili. Echi e consonanze del pensiero di Groddeck e del suo approccio clinico, quasi sempre sottaciuti o solo timidamente citati, s’incontrano spesso nella letteratura più recente.
Prima di soffermarmi sulla sua attività di sperimentatore straordinario[5] che lo porterà ad abbandonare il paternalismo medico per scoprire la mutualità nella relazione di cura vorrei qui evidenziare la stretta correlazione tra la “scrittura poetica” di Groddeck e quella odierna di James Hillman, fondatore della psicologia archetipica e ritenuto uno dei più originali e << uno dei pochi pensatori capaci di cambiare la vita di chi lo legge >> (come recita il retro di copertina di un suo recente libro-intervista con Silvia Ronchey, L’anima del Mondo).
L’opera di entrambi si pone in quella zona di confine tra la scienza, l’arte e la filosofia e ci fa scoprire sorprendenti analogie tra il linguaggio dell’Es e quello dell’anima: un linguaggio insaturo, oracolare, connotativo più che denotativo, in cui cioè la struttura di ciò che viene detto ha maglie talmente larghe da permettere la libertà delle associazioni e delle riflessioni. Il lettore non entra semplicemente nel corpo della narrazione, ma può rimanere a lungo catturato da una parola, da un’immagine stabilendo un rapporto reale e strettamente personale con il testo.
Vediamone un esempio significativo nelle parole di Hillman tratte dal suo recente saggio Il potere.
<< La mia tattica è far esplodere piuttosto che spiegare; è mantenere idee brevi, fulminee, accese e disseminate, in qualunque modo possibile – con l’eccesso polemico, il paradosso, o con l’attacco violento alle convenzioni che ci sono care. Prendete quella che segue come un’investigazione, come una tavola rotonda, un’improvvisazione, un disegno a mano libera di cose non viste. Vi prego, non siamo a scuola e io non sono il vostro insegnante. Lasciate parlare le idee. (…) Vediamo le idee e al tempo stesso vediamo per mezzo di esse. Sono le forme che la nostra mente assume e al tempo stesso ciò che consente alla nostra mente di trasformare gli eventi in esperienze dotate di forma. (…) >>.
E ancora: << L’anima è alla disperata ricerca del potere della mente, che la rende in grado di affrontare l’impotenza che sperimenta. (…) Le idee ci vengono in mente. ‘Abbiamo’ un’idea, possiamo essere ‘presi’ da un’idea. Le idee possono arrivare attraverso lampi di ispirazione, lunghi rimuginii e meditazioni, sogni, oppure attraverso l’attenzione faticosamente concentrata. (…) Poiché diamo per scontate le nostre idee, le idee (come poteri soprasensibili), senza che ce ne accorgiamo, ci posseggono >> o meglio: << le idee che possediamo senza sapere di averle, possiedono noi. (…) C’è un’idea in particolare, però, che ostacola fin dall’inizio l’esame delle idee: la convinzione che siamo noi a crearle nella nostra testa, come se fosse il cervello umano a secernerle. Noi tentiamo di dissimulare l’autonomia del loro potere etichettando con nomi umani invenzioni tecniche, scoperte fisiche, procedure mediche e leggi matematiche, attribuendo cioè le idee a persone che presumibilmente le hanno pensate. Il poeta W.H. Auden ha guardato in trasparenza questa illusione umanistica, che cerca di imbrigliare la libertà delle idee, e ha concluso: “Noi siamo vissuti dai poteri che vogliamo far credere di capire” >>[6]. E qui in realtà sembra parlare proprio Groddeck, di cui Auden come sappiamo è stato un estimatore, con la sua affermazione più nota: << non è vero che noi viviamo, in verità noi in gran parte veniamo vissuti >>[7].
Non mi risulta che Hillman, nei suoi numerosi scritti, abbia mai citato il Nostro, eppure la consonanza è stretta. Laddove questi scrive: << L’Es è la cosa che fa vivere l’uomo, è la forza che lo fa agire, pensare, crescere, ammalare, e guarire: insomma che lo vive >>[8], il primo afferma: << Quando uso il termine “Io”, lo circondo di epiteti ironici: il cosiddetto Io, perché a mio parere il compito della psicologia è aggirarlo e guardare oltre. Per quanto mi riguarda, di sicuro non colloco questo costrutto, l’Io, al centro della coscienza >>[9] e ricorderà che << Il mondo e la sua umanità sono la valle del fare anima >>[10] riprendendo una lettera del poeta inglese John Keats.
Il concetto dell’Es a questo punto potrebbe essere confrontato con quello dell’Anima Mundi (cfr. Jung, Hillman, Yeats), il Ca parle (Lacan) per arrivare al decostruzionismo di Derrida che non finirà di ricordare che il “sapere assoluto” (SA, savoir absolu) si è rivelato essere Ca, l’Es, l’inconscio.
Basti qui sottolineare che la medicina poetica, che restituisce al corpo la sua voce e non riconosce nella ragione ordinatrice e imperante della scienza l’autentica possibilità di comprendere la vita e l’essere umano, con l’introduzione dell’Es ha operato una rivoluzione radicale: il << decentramento del sapere umano operato dal sapere dell’Es >>(Lacote) [11] che << ingloba conscio e inconscio, io e pulsioni, corpo ed anima, fisiologia e psicologia. Rispetto all’Es non vi sono frontiere tra fisico e psichico, entrambi sono manifestazioni dell’Es, modi d’apparire >>(Groddeck)[12].
Può ben rispecchiare l’opera di Groddeck l’interrogativo posto da Adam Phillips nel suo recente saggio Paure ed esperti, se si estende la nozione di inconscio all’Es: << invece di chiedere: ‘esiste l’inconscio?’ potremmo chiedere: ‘In che senso le nostre vite diventano migliori se viviamo come se l’inconscio esistesse?’ >>[13].
E come ricorda Winnicott: << L’accettazione del non sapere produce un profondo sollievo>>[14].
Se poeti e scrittori hanno ben riconosciuto il debito al <<poeta tedesco della salute psicofisica>> (L. Durrell[15]), affascinati dal suo “mito conoscitivo” e dalla consapevolezza che <<si è scritti oltre che scrivere e più che scrivere >> (E. Sanguineti[16]), nondimeno Groddeck può avere ancora molto da dirci, sopratutto se riusciamo a dare credito che con l’Es egli abbia trovato non una Weltanschauung, bensì un’ipotesi di lavoro per la pratica medica clinica, una Hilfskonstruktion (costruzione ausiliaria), in sintesi una finzione di estremo valore pratico: << Si tratta di uno strumento per indagare, studiare e conoscere me stesso e le persone che entrano in contatto con me >>[17]. D’altronde egli non smise mai di ricordare che << ciò che importa non è spiegare come si aiuta il malato, bensì aiutarlo. (…) Nostro compito non è tanto escogitare teorie esatte quanto trovare ipotesi di lavoro che si rivelino utili nel trattamento >>[18].
<< Davanti a ogni teoria varrebbe la pena di chiedersi: di cosa bisogna disfarsi per poterci lavorare? >> recita ancora il winnicottiano Adam Phillips nel summenzionato saggio[19] che suona tanto groddeckiano e contiene una critica radicale all’”expertise psicoanalitico” che, senza tenere conto della funzione difensiva delle teorie, << rischia di non incontrare il paziente neanche a metà strada >>[20]. Più in generale, Il medico nell’età della tecnica (per riprendere il famoso piccolo libro di Karl Jaspers) o meglio nella Evidence Based Practice si trova ad aver acquisito un’identità scientifica sempre più forte, a sapere moltissimo nell’ambito iperspecialistico e parcellare che gli è proprio e al contempo a trovarsi sempre più distante non solo dai sentimenti e dai bisogni profondi di chi pretende di aiutare ma anche dai propri. In psichiatria, per esempio, scrive Glen Gabbard nel suo noto trattato: <<… sopra il fragore delle affermazioni ottimistiche sulle basi genetico-biochimiche di tutte le malattie mentali, un altro lamento, crescente in intensità, si fa sentire. Gruppi di specializzandi in psichiatria impegnati in programmi a orientamento biologico lamentano che, pur sapendo tutto sui neurotrasmettitori, non sono in grado di parlare ai loro pazienti. […] Anche i pazienti stanno cominciando a chiedere di essere ascoltati piuttosto che semplicemente trattati farmacologicamente….>>[21]
Si potrebbe riformulare qui la questione in questo modo: dimmi come ti difendi e ti dirò come lavori. E poi: è possibile trovare delle difese più efficaci per lavorare meglio e coniugare così finalmente abilità tecnica ed ethos umanitario?
Oggi in qualsiasi testo di medicina anche non specialistico si parla dell’evoluzione del rapporto medico–paziente, dalla compliance, all’aderenza, all’alleanza, ma questi rischiano di rimanere parole/contenitori vuoti se, come ricorderà Balint, non si associano a un autentico cambiamento di prospettiva nella persona del medico.
È a questo livello che si situa a mio parere la preziosa eredità del lavoro di Groddeck con i suoi malati, che lo pone in stretta relazione con Ferenczi, << innovatore (…) precursore e iniziatore di tutte le tendenze moderne >>[22], con il successivo “spirito balintiano” e con la tanto auspicata riforma in medicina (mi riferisco al decalogo stilato da illustri medici italiani passati dall’altra parte nell’omonimo recentissimo libro[23] dove deplorano la distanza abissale tra chi cura e chi le cure è costretto a riceverle) che consenta di recuperare il paziente come persona e insieme proteggersi, in qualità di operatori d’aiuto, senza sfuggire al contatto con la sofferenza e il dolore.
Se il terapeuta è il primo strumento terapeutico (Harry Stack Sullivan), o meglio se il farmaco di gran lunga più utilizzato in medicina è il medico stesso (Michael Balint) ciò accade in misura proporzionale a quanto il suo inconscio si lascia influenzare da quello del paziente perché è proprio la << formazione di un nuovo individuo medico-malato (è) l’asse attorno al quale ruota il trattamento >>(Groddeck)[24].
Lewis Aron, erede di S. Mitchell teorico dell’approccio relazionale, ricorda nel suo recente libro Menti che si incontrano[25] una tradizione, a lungo rimasta marginale, che sottolinea l’aspetto mutuo in psicoanalisi. Al riguardo riprende gli scritti di Groddeck (1923), Ferenczi (1932) e infine quelli di A. Searles. Quest’ultimo nei suoi Il paziente come terapeuta del proprio analista (1975) e Il controtransfert (1979) si riferisce al Libro dell’Es, come al << primo scritto in cui si analizza tematicamente il modo in cui il paziente funziona da terapeuta per il medico >>[26].
Questa linea di pensiero sovversiva è stata tracciata proprio nella trentesima lettera a un’amica nella quale Groddeck, dopo essersi riferito all’insegnamento di Schweninger, “il gran maestro della ‘medicina paternalistica’”, comincia a parlare del caso della famosa signorina G che lo avrebbe obbligato a fare diversamente: << Ella aveva verso di me un atteggiamento infantile, anzi, come lei stessa si espresse in seguito, l’atteggiamento di una bambina di tre anni, e ciò mi costrinse a fare la parte della madre. Certe virtù materne che sonnecchiavano nel mio Es vennero svegliate dalla paziente e guidarono il mio trattamento. (…) Mi trovai dunque a un tratto di fronte a una strana situazione; non ero io a curare il malato, ma il malato a curare me; o, per dirla nel mio linguaggio, l’Es del mio prossimo cercava di trasformare il mio Es, anzi lo trasformava effettivamente, in modo da potersene servire per i suoi scopi. Già l’arrivare a prendere coscienza di questo fatto fu difficile, perché, come si renderà conto, ciò rovesciava del tutto la mia posizione verso il paziente. Non si trattava più di dargli delle prescrizioni, di ordinargli delle cose che io ritenevo utili, ma di trasformare me stesso in modo da potergli essere utile >>[27].
Parole simili utilizzerà un partecipante ai gruppi Balint, sperimentati in tutto il mondo e considerati a tutt’oggi lo strumento più efficace per la formazione psicologica degli operatori d’aiuto: «Invece di pensare come potevano meglio esaminare, diagnosticare e trattare i loro pazienti, i medici (arruolati nei gruppi di formazione) cominciarono a chiedersi come potevano lasciarsi meglio usare dai loro pazienti»[28].
Michael Balint portò i colleghi a operare sul “controtransfert”, ossia sul << modo in cui il medico utilizza la sua personalità, le sue convinzioni scientifiche, i suoi modi di reazione automatici >>, al fine di ottenere << una modificazione notevole seppur parziale >> della sua personalità[29].
Nel suo Medico, paziente e malattia sottolinea l’importanza di superare la cosidetta un po’ ironicamente “funzione apostolica” del medico, considerata l’aspetto più problematico e al contempo più difficile da abbandonare per riuscire a stabilire un’autentica partnership cioè «una società mutua d’investimento» perché << paziente e medico evolvono entrambi verso una migliore conoscenza reciproca >>[30]: << Ogni medico possiede un’idea vaga ma quasi irremovibile del comportamento che un paziente deve adottare in caso di malattia. (…) quest’idea (…) possiede un potere immenso, capace di influenzare praticamente ogni particolare del lavoro del medico con i suoi pazienti. Tutto avviene come se ogni medico possedesse la conoscenza rivelata di ciò che i pazienti hanno diritto o no di sperare e di ciò che devono sopportare, ed inoltre avesse il sacro dovere di convertire alla sua fede tutti i pazienti ignoranti e increduli >>[31].
In altri scritti di Groddeck è ben riconoscibile la mutualità nella relazione di cura, tra questi Trattamento (Behandlung) e Considerazioni generali sulla psicoterapia (Grundsätzlisches über Psychoterapie), nessuno dei quali tradotto in italiano.
Nel primo si legge: <<…alla domanda: chi cura? non si può rispondere che il medico cura il malato –questo è solo un aspetto del processo-, perché si hanno sempre contemporaneamente due trattamenti che si incrociano, quindi anche due persone che curano: il medico cura il malato e il malato cura contemporaneamente il medico >>.
Nel secondo: << Qui mi trovo davanti a una svolta curiosa, in cui il rapporto medico-paziente si capovolge e il malato diventa il medico…>> per finire con << Il malato è il maestro del medico. Solo dal malato il medico può apprendere la psicoterapia >>. Saranno piuttosto le parole di Winnicott << i miei pazienti i miei maestri >>[32] a diventare famose. Laddove Groddeck nel summenzionato scritto parla della necessità per il medico di mettersi al servizio del malato Hillman, nel suo Il suicidio e l’anima, sottolineerà l’etimologia di “psicoterapeuta” come “servo dell’anima”.
Non si tratta qui certo di rilevare semplicemente chi ha raggiunto forse per primo questa consapevolezza nel rapporto medico-paziente né di entrare nel recente dibattito in ambito psicoanalitico sull’estensione del concetto di mutualità (dalla mutua analisi di Ferenczi, richiamata da Blechner[33] all’imprescindibile mantenimento di un’asimmetria, a volte così preziosa per combattere l’aggressività, pur nell’influenza a due sensi tra analista e analizzando in Aron[34]), quanto piuttosto di come questa tappa essenziale sia stata raggiunta e sia tuttora un nodo cruciale e spesso irrisolto. Gli junghiani, trattando dell’archetipo guaritore –paziente, ne parleranno come di un passaggio quasi obbligato nella storia di ogni professionista della salute.
Il corpo a corpo con il paziente può avere infatti un effetto scuotente e portare tanto alla relazione quanto sancire la distanza abissale tra chi cura e chi viene curato. Che sia stato Groddeck a tracciare quella terza via oltre alle due ricordate da Soren Kierkegaard secondo il quale << una via è soffrire, l’altra è diventare professore di ciò che un altro soffre >>[35]?
Che << per comprendere il vivente bisogna prender parte alla vita >>[36] come dirà Viktor von Weizsäcker, neurologo e professore universitario che abbandonò il tavolo anatomico e i vetrini per convertirsi alla psicosomatica e come Groddeck fu presto dimenticato, il Nostro sembra essersene accorto subito. Tracce ben evidenti sono presenti nella sua biografia e nelle sue opere. Impossibile qui ripercorrerle tutte. Si può ricordare la sua stessa tesi di laurea “Sull’uso dell’idrossilamina e il suo impiego nelle malattie della pelle” che si presta come monito quanto mai attuale sull’uso/abuso indiscriminato di farmaci spesso in realtà non più efficaci di un placebo (mi viene qui in mente l’attuale polemica sui farmaci serotoninergici che utilizzati inizialmente come antidepressivi hanno esteso via via le loro indicazioni fino a comprendere pressoché tutto lo spettro dei disturbi psichici). Sicuramente non solo l’”arma farmacologica” ma soprattutto il linguaggio medico tecnico e per lo più oscuro ai non iniziati tendono a mantenere su piani ben separati curante e curato e a porre quest’ultimo in una posizione di sottomissione e infantilizzazione.
L’attività di medico “a tutto campo”, a partire da quella di massaggiatore prima che “scrutatore d’anime”, porterà Groddeck a riconoscere che << Il linguaggio è un pessimo strumento per imparare a conoscere gli altri. Io cerco di farmi capire molto più con il viso e con i movimenti del corpo che non con il linguaggio >>[37]. Proprio attraverso il contatto con il corpo (“l’imbarazzante presenza dei corpi” secondo Freud) egli conosce i suoi pazienti. Il < <massaggio >> dice Groddeck << necessita di una vicinanza fisica tra medico e paziente, quale altrimenti non si verifica neppure nella pratica chirurgica >>[38]. Anche se il suo approccio, così strettamente legato alla sua persona, non ha avuto eredi diretti, sarà Maud Mannoni, una dei pochi ad averlo preso sul serio in campo scientifico (ricordo qui soprattutto in area francofona Lewinter, Malarewicz e Chemouni, in Italia Stefano Mistura) a ricordare come Boris Dolto abbia fondato una scuola di fisiochinesiterapia che rimandava molto a Groddeck così come il suo Le corps entre les mains dove dirà: << Abbiate mani intelligenti >>[39]. Un’eco possiamo forse ritrovarla anche nell’attuale approccio aptonomico di Veldman: il tocco come cura (<< dove il con-tatto permette lo sviluppo della “sicurezza di base”, scioglie il respiro e la parola cambia…>>[40]) negli hospice per malati oncologici in fase terminale per entrare da vivi nella morte, accompagnare lasciandosi guidare dall’altro, adattarsi a lui, stare insieme ( vedi lavori di Marie de Hennezel)[41]
L’attacco impietoso alla psicoanalisi, fatto da Groddeck in NASAMECU prima di avvicinarsi alla talking cure di Freud, può essere facilmente letto come una resistenza ma contiene timori non del tutto ingiustificati e ancora attuali: << Questo metodo comporta di per sé grandi pericoli per il paziente, che anche il maestro di quest’arte non è sempre in grado di evitare. Il paziente si trova nella necessità di rivelare il suo segreto più profondo, abbandona la sua personalità nelle mani di un estraneo. Anche se si potesse supporre che questo estraneo fosse così discreto da tenere per sé il segreto – cosa che, se si esamina la letteratura in proposito, accade solo in rari casi – si può senz’altro affermare che il paziente entra in uno stato di dipendenza assoluta dal suo assistente con la consapevolezza che il medico sa di lui una cosa che nessuno deve sapere. Egli rimarrà per sempre schiavo del proprio medico; anche se avesse il coraggio di comportarsi liberamente, risentirebbe pur sempre la stretta di quelle catene. Per liberarsene occorre una forza di pensiero che non si può supporre in questi pazienti e che anche nella vita quotidiana si trova piuttosto raramente. Come dicevo, neppure i più eminenti psicoanalisti sono in grado di evitare sempre questo scoglio. Ma quanti artisti di questo genere esistono nel nostro mondo? >>[42].
Ci si potrebbe interrogare a lungo sugli usi e abusi del trattamento analitico la cui durata, specie in anni recenti, si è dilatata a tal punto da accompagnare non infrequentemente l’uno o l’altro polo della coppia analitica, più spesso il terapeuta per ragioni d’età, fino alla tomba (vedi la dissacrante parodia nel film di Carlo Verdone, Ma che colpa abbiamo noi, sulla terapia di gruppo).
Più in generale questo vale in ambito psicoterapico e psichiatrico dove il paziente, una volta entrato nel “circuito” non ne esce più dando ragione da un lato di una vera e propria adozione professionale, dall’altro della sua inguaribilità (penso qui ai pazienti gravi, ai sempre più frequenti pazienti con doppia diagnosi, di cui Bruno Veneziani, cognato di Italo Svevo, “trattato” da Groddeck può rappresentare un autentico antesignano). La questione del Potere assoluto del medico, al di sopra del malato e della malattia, è oggetto di un’attenta disamina nell’omonimo prezioso libro dello junghiano A. Guggenbühl-Craig. (1983)[43]. Vale la pena di ricordare anche il lavoro dello scozzese Ron Coleman che, nel suo Guarire dal male mentale, ne parla dalla parte del paziente rievocando la personale esperienza e ammonendo come << la guarigione non può avvenire se tutte le nostre relazioni sono basate su un’interazione del tipo professional-utente >>[44].
Tutta la terra è il nostro ospedale
finanziato da un milionario in rovina,
dove, se va bene, moriremo
dell’assoluta cura paterna
che non ci lascerà mai, ma non ci permette di arrivare in nessun luogo.
Così recita Eliot nei Quattro quartetti[45] e più di tante parole rimanda alla necessità che il terapeuta abbandoni i suoi aspetti di potere (l’irresistibile ma altrettanto pericolosa fascinazione per i sentimenti di onnipotenza e onniscienza che la scienza può dare al medico), accettando l’”andare” del paziente. Questo non solo nella fase finale della terapia, ma anche nel cuore di essa.
Naturalmente nella pratica la faccenda è ben più complessa perché << il medico non è semplicemente un dottore, ma anche un essere umano >>[46] e molto dipenderà dalla sua personalità: << più vasta è la personalità (del medico) e più alto il numero delle persone che riesce a rappresentare, più efficace sarà l’aiuto che riuscirà a portare >>[47].
Consentendo al malato di << far prendere al medico coscienza del suo inconscio >>[48], il medico potrà essere e in certe condizioni dovrà essere capace di porsi ora come madre, ora come padre, fratello rispetto a un altro individuo (e qui il rimando all’elasticità della tecnica attuata da Ferenczi è evidente. Altrettanto e ancor di più lo è in Michel Sapir, discepolo di Balint, che ben lungi da citare Groddeck, dirà riguardo la professione medica in generale: << Secondo le circostanze, secondo le urgenze, secondo la personalità del paziente il medico potrebbe e dovrebbe essere condotto ad assumere una volta il ruolo del padre, un’altra quella della madre e un’altra ancora quella del figlio >>[49]).
Abbracciando la psicoanalisi, introducendo la parola come cura, Groddeck non metterà più a nudo i suoi pazienti di quanto non farà con se stesso.
<< Ponendosi in ciascuna delle sue conferenze nella posizione di analizzando >>[50] (Maud Mannoni), ricorderà a tutti che la scelta di fare il medico si basa sostanzialmente sul << bisogno di contrastare o dominare i propri bisogni distruttivi, i propri sentimenti di colpa, al limite vincere la propria morte, assumendosi la responsabilità di guarire gli altri >>, come ammoniva il professore di psichiatria, Dario De Martis, all’università non senza suscitare in noi studenti un certo sconcerto per questa irriducibile verità.
<< É ridicolo come ti sei bardato per questo mondo >> scrive F. Kafka in uno dei suoi Aforismi di Zürau[51] che potrebbe essere benissimo rivolto al nostro già riconosciuto << maestro della caricatura psicosomatica >>[52] ma è importante non perderlo di vista[53].
Relazione presentata a: Paths to Es/ Wege zum Es, 4th Symposium of the Georg Groddeck Society (Georg Groddeck- Gesellschaft) in Baden- Baden, 25-27 September 2009, poi pubblicata in lingua tedesca negli atti: “TaktvolleGrenzüberschreitung Groddecks Echos und Konsonanzen in der heutigen Arzt-Patienten Beziehung“ in: M. Giefer, O. Jägersberg, W.H. Krause (a cura di) Wege zum Es, VAS, Bad Homburg 2010, p.150-164, in lingua spagnola sul sito cileno da Juan Fernando Cuneo:http://www.alsf-chile.org/Indepsi/Georg-Groddeck/Intromision-con-mucho-tacto-Ecos-y-Armonias-Groddeckianas-en-la-Relacion-de-la-Cura.pdf ; pubblicato in versione aggiornata in “Pierino Porcospino e l’analista selvaggio”, ADV Publishing House Lugano, 2016, pp. 21-42.
www.adv-publishing.ch/index.php/…/pierini-porcospino-e-l-analista-selvaggio.html
Collegamenti utili
- http://www.georg-groddeck.de/de/WegeZumES_Publikation/
- http://www.georg-groddeck.de/en/PathsToES2009_Symposium/index.html
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- Giancarlo Stoccoro, psichiatra- psicoterapeuta, giancarlo.stoccoro@gmail.com, http://www.psichiatriastoccoro.it/, http://www.ladimoradellosguardo.it/
Relazione presentata a: Paths to Es/ Wege zum Es, 4th Symposium of the Georg Groddeck Society (Georg Groddeck- Gesellschaft) in Baden- Baden, 25-27 September 2009, poi pubblicata in lingua tedesca negli atti: “TaktvolleGrenzüberschreitung Groddecks Echos und Konsonanzen in der heutigen Arzt-Patienten Beziehung“ in: M. Giefer, O. Jägersberg, W.H. Krause (a cura di) Wege zum Es, VAS, Bad Homburg 2010, p.150-164, in lingua spagnola sul sito cileno da Juan Fernando Cuneo:http://www.alsf-chile.org/Indepsi/Georg-Groddeck/Intromision-con-mucho-tacto-Ecos-y-Armonias-Groddeckianas-en-la-Relacion-de-la-Cura.pdf ; pubblicato in versione aggiornata in “Pierino Porcospino e l’analista selvaggio”, ADV Publishing House Lugano, 2016, pp. 21-42.
[1] I. Bachmann, Entwurf einer Kritik über Groddeck, in: O. Jägersberg (a cura di) Dokumente und Schriften, p. 88.
[2] Cfr. W. Martynkewicz, Georg Groddeck, Una vita, p.306.
[3] Vedi Pontalis, Perdere di vista, p. 152.
[4] Vedi il saggio di A. Phillips, Paure ed Esperti.
[5] M. Mannoni, Entretien, in: L’Arc, 78, p. 33.
[6] J. Hillman, Il potere, pp 29-34.
[7] E. Weiss, Elementi di psicoanalisi, Hoepli Editore, p.25.
[8] G. Groddeck, Il libro dell’Es, p. 356.
[9] J. Hillman, Il linguaggio della vita, p. 47.
[10] J. Hillman, Il mito dell’analisi, p. 40.
[11] C. Lacôte, L’inconscio, p. 57.
[12] G. Groddeck, Das Es und die Psychoanalyse in: Die Arche, I, 20.9.1925, p.8.
[13] A. Phillips, Paure ed Esperti, p. 95.
[14] Citato in Phillips, ibidem, p. 153.
[15] Introduzione a G. Groddeck, Il Libro dell’Es, p. XIII.
[16] E. Sanguineti, Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo, p. 102.
[17] G. Groddeck, Das Es und die Psychoanalyse in: Die Arche, II, 12.04.1926, p.6.
[18] G. Groddeck, Condizionamento psichico e trattamento psicoanalitico delle affezioni organiche, in: Il linguaggio dell’Es, p. 37-38.
[19] A. Phillips, Paure ed Esperti, p.65.
[20] Ibidem, p. 80.
[21] G.O. Gabbard, Psichiatria psicodinamica, p. 22.
[22] L. Aron e A. Harris., L’eredità di Sàndor Ferenczi, p. 27.
[23] S. Bartoccioni, G. Bonadonna, F. Sartori, Dall’altra parte.
[24] G. Groddeck, Del vivere e morire, in: Il linguaggio dell’Es, p. 321-322.
[25] L. Aron, Menti che si incontrano, pp. 98-99, 153-154, 157-158.
[26] H. Searles, Il controtransfert, p.327.
[27] G. Groddeck, Il libro dell’Es, p.331.
[28] H.S. Pasmore, L’uso del medico da parte del paziente in: E.Balint & J.S. Norel., Sei minuti per il paziente., pp. 47-48.
[29] M. Balint, Medico, paziente e malattia, p. 335.
[30] Ibidem, pp. 296-297.
[31] Ibidem, p. 256.
[32]Vedi J.B. Pontalis, Finestre,, p.20.
[33] M.J. Blechner, Working in the Countertrasference. Psychoanalytic Dialogues, 2:161-179, 1992.
[34] L. Aron, From Ferenczi to Searles and Contemporary Relational Approaches.
[35] Citato in A. Romano, Sul fascino ipnotico dello stile retorico. E sulle sue insidie, in: R. Mondo e L. Torinese (a cura di), Caro Hillman… Venticinque scambi epistolari con James Hillman, p. 60.
[36] V. von Weizsäcker, Filosofia della medicina, p.20.
[37] G. Groddeck, Conferenze psicoanalitiche (1916-1917), p.4.
[38] G. Groddeck, Krankheit als Symbol, in Martynkewicz, Georg Groddeck. Una vita , p. 149.
[39] M. Mannoni, Entretien, in: L’Arc, 78, p. 35.
[40] E. Marangon, Lo psicologo, le terapie di appoggio e le psicoterapie con i pazienti ultrasessantenni.
[41] De Hennezel M., La morte amica e Morire a occhi aperti.
[42] G. Groddeck, La natura guarisce, il medico cura. La scoperta della psicosomatica (NASAMECU), p.70.
[43] A.Guggenbühl-Craig, Al di sopra del malato e della malattia. Il potere assoluto del terapeuta.
[44] R. Coleman, Guarire dal male mentale, p.23.
[45] T.S. Eliot, La terra desolata. Quattro quartetti, p.119.
[46] G. Groddeck, Conferenze Psicoanalitiche, 28 febbraio 1917, p. 200.
[47] Ibidem, p. 197.
[48]G. Groddeck, Grundsätzlisches über Psychoterapie.
[49] M. Sapir, Medico-paziente: un corpo a corpo, p. 200.
[50] M. Mannoni, Entretien, in: L’Arc, 78, p. 35.
[51] F. Kafka, Aforismi di Zürau, p.44.
[52] A. Phillips, Sul baciare, solleticare e l’essere annoiati. Saggi psicoanalitici sulla vita inesplorata, p. 49.
[53] Qui il riferimento è al libro di J.B. Pontalis, Perdere di vista.